”…Senza una pianta sotto gli occhi non ci si comprenderà più perché questo non è che un gioco e l’oblio di un tempo che fu”. (R. Queneau, Conosci Parigi?)
Stavo pensando a quanto la primavera avesse ammaliato la corrente artistica degli Impressionisti mentre, affacciata alla finestra, guardavo i miei ricordi giocare in giardino, in una luminosa mattina di aprile. Era Pasqua, una soleggiata giornata la cui trasparenza dell’aria mostrava con nitidezza l’eleganza della valle. La luce frugava con determinazione nel mio animo, complice il sole che aveva acceso un angolo della casa e il leggero pulviscolo ne aveva incipriato l’aria. Quel fascio luminoso ritagliò la scena come fosse carta, pagina di un libro che voleva essere sfogliato.
Ero tornata da qualche giorno. Avevo parcheggiato l’automobile, un’Ascona del 1976, che da quando aveva ricevuto ufficialmente il Certificato di Rilevanza Storica pareva ancora più brillante, nella vicina Piazza.
Auto di famiglia, adesso condivideva con me viaggi la cui meta era il viaggio stesso. Conosceva bene il territorio, lo aveva sempre percorso senza errori e solo all’occorrenza veniva consultata una preparatissima carta geografica che rimetteva subitaneamente sulla giusta via.
Ognuno di quei borghi, che la notte parevano disegnare uno zodiaco tutto loro, meritava di essere conosciuto, esplorato, perché ognuno cela una storia, una curiosità e, a volte, un mistero.
Tavolozza geografica di cui non si può rifiutare l’invito ad intingervi la penna per narrare un dialogo inesauribile.
Nei giorni che precedevano la Pasqua era tradizione preparare la focaccia pasquale, la schiaccia o crescenta nota anche come pasimata, la cui lavorazione richiedeva più giorni di lievitazione con costante attenzione agli sbalzi di temperature. Tutto veniva calcolato affinché fosse pronta per essere portata in chiesa il Sabato Santo per la Benedizione. Già menzionata negli archivi parrocchiali del XVII secolo, usata anche come forma di pagamento dalla Chiesa, inizialmente era un pane rituale, di condivisione, divenuto solo successivamente un dolce diversamente arricchito a seconda delle zone. Il suo sapore rimasto, comunque, semplice ben si può abbinare al Vinsanto, anch’esso da offrire in occasioni importanti. Ed è lo stesso nome a dichiararne il prezioso significato. Infatti, la spremitura delle uve viene effettuata tra novembre e il periodo pasquale, è quindi molto probabile che la vicinanza alle importanti Festività abbia portato alla contrattura da “Vin pè Santi” a ”Vinsanto”. Conservato nelle botticelle, lunghe e strette, mai nuove, di legno di castagno o quercia e conosciute col nome di caratello perché venivano trasportate sui carri, questo liquore ambrato, definito altresì “vino dell’amicizia”, può accompagnare un momento conviviale ma anche meditativo.1
E’ una tradizione che continua ancora oggi, che sa di gentilezza e familiarità, di festa, atmosfere che con la loro spontaneità hanno, anch’esse, affascinato gli Impressionisti.
Chiusi la finestra e andai in salotto per preparare la tavola in attesa degli ospiti. Il forno socchiuso aveva liberato sentori sopiti, la caffettiera ridacchiava sul gas… Sorridendo, la zittii.
A volte vien da pensare : “non ho cambiato panorami per diverso tempo, eppure …come è strano, mi sembra di aver fatto un lungo… lunghissimo… viaggio. Avevo visitato la Valle del Serchio”... parafrasando sempre Raymond Queneau…
1 Le informazioni sul Vinsanto sono tratte dal libro “Vinsanto, Storia e Leggenda del Vino dell’Amicizia”, P. Cantini