"Il vento portò con sé la silenziosa sinfonia della montagna, fatta di colori e profumi" (Il cercatore di essenze, Dominique Roques).
Stavo sorseggiando il mio espresso. Taluni mi dicevano che lì, in quel bar, aveva una consistenza così cremosa che forse avrei anche potuto leggerlo. I fondi, intendevano.
Accanto a me, un signore giocherellava con la bustina dei fiammiferi, in un apparente distratto via vai di pensieri. Presi il giornale che avevo trovato sul tavolo e iniziai a scorrere le notizie: ognuna aveva un suo ritmo, una sua vicenda che si incontrava con la storia personale di chi la leggeva ed in tal modo si creava un incontro che forse mai sarebbe potuto accadere.
Alzai lo sguardo verso il sincero profilo dei monti e pensai che quella valle, la Valle del Serchio, custodiva un’identità unica e generosa. Ci si poteva perdere tra storia e ricordi, tra i suoi profumi e la poliedrica personalità.
Il campanile mi ricordò che quel giorno avevo un appuntamento, quindi finii il caffè e mi incamminai verso un antiquario, un antique shop, direbbero gli inglesi, dove, mi avevano assicurato, avrei trovato quel che mi piaceva chiamare ”il profumo del tempo”. Perché, sì, anche il tempo ha un suo profumo. Talvolta può essere molto aspro, pungente, altre ha il buon sapore di un ricordo, altre ancora ha l’odore della pioggia che intride gli animi.
Ero arrivata. La porta stridette sulla polvere del pavimento e lo strillare di un campanellino annunciò il mio ingresso. Nessuno.
Iniziai a guardarmi intorno. C’erano oggetti per tutti i gusti, dalle piccole specchiere di fine ottocento ai porta ombrelli vintage, qualche bambola dallo sguardo stupito, tavolini inglesi… ma fu una coppia di piastre in ferro ad attirare la mia attenzione. Sembravano fatte per le mani di un gigante rispetto alle misure delle attuali per cuocere le crệpes ed il loro peso confermava il dubbio.
Una voce dietro di me fece chiarezza. “Buongiorno! Quelli che sta guardando sono i testi, dal latino testum, vaso in terracotta utilizzato sin dall’Antica Roma per cuocere e difatti venivano utilizzati per la cottura dei necci, un impasto a base di farina di castagne. Pare che il loro nome derivi dal medioevale castanicius da cui castagnaccio ed il suo diminutivo neccio. I testi prima erano in argilla, poi in ghisa fino a questi in ferro... Più maneggevoli”, precisò con un sorriso.
Dopo tutte quelle informazioni non volevo confessare che li conoscevo e che, mentre parlava, il mio pensiero riandava alla casa di famiglia, a quando la Nonna mi diceva di andare dall’Alda perché era appena arrivata la farina di castagne nuova, che veniva consegnata sempre insieme a foglie di castagno. Alle occasioni in cui, mentre mani sapienti preparavano i necci, qualcuno di noi faceva la spola tra la cucina e la tavola per portarli caldi in modo che la ricotta fresca ben si amalgamasse col disco dorato -appena brunito- del neccio. La Nonna, con i testi, faceva anche delle focaccine di formentone, molto sottili, da accompagnare col pecorino. Ne ricordo ancora il sapore… e il panorama che vedevo dalla finestra, con le colline che si rincorrevano fino al mare.
Sì, il tempo profuma.