Quattro flash. Nel primo Carlo Feltrinelli spiega a Curcio e a Franceschini, ovvero alle Brigate rosse, lo «zainetto del rivoluzionario». Va tenuto sempre pronto: «L'esperienza della guerriglia in America latina e gli insegnamenti di che Guevara lo indicano come indispensabile». Deve contenere documenti, soldi, vestiti di ricambio, il necessario insomma per la latitanza cittadina. E anche «un pacchetto di sale e dei sigari» conclude. Perplessi i due bierre chiedono chiarimenti su quest'ultimo punto. «Il sale in America latina è un bene prezioso» è la replica. Sì, ma loro sono a Milano è la controreplica, «e il sale si trova ovunque». È una tradizione, controbatte Feltrinelli, e le tradizioni, si sa, vanno rispettate E i sigari, allora, perché i sigari? «Perché Che Guevara diceva che il miglior amico del guerrigliero nelle ore di solitudine è il sigaro: anche questa è una tradizione e va rispettata». È il 1971, gli appuntamenti sono di regola fissati ai giardini di Piazza Castello, e da lì si va poi in uno dei tanti appartamenti più o meno segreti dell'editore, il cui nome di battaglia è «Fabrizio».
Il terzo flash è del febbraio '70. Feltrinelli è espatriato due mesi prima, ma due mesi dopo la magistratura ha provveduto a revocare ogni provvedimento restrittivo nei suoi confronti. Può, insomma, andare e venire come vuole, non è un ricercato, non è considerato un pericolo, non lo si vede come un guerrigliero. Così però si vede lui, perennemente travestito, che sia in casa a Milano o nella baita in Carinzia, e autoconvinto di nascondersi nella boscaglia.
L'ultimo flash è del marzo 1972, quando il cadavere dilaniato di quello che adesso si fa chiamare «il compagno Osvaldo» viene ritrovato ai piedi di un traliccio a Segrate. È in un titolo, o forse in un articolo, di un giornale di estrema destra, icastico e senza pietà, e però veritiero: «Il più grande boom dell'editoria», c'è scritto.
Messi in fila e riuniti insieme, questi quattro segmenti rimangono come punti fermi e segni distintivi di una vita di cui Aldo Grandi da ora conto, a cinquant'anni di distanza, con certosina pazienza nel suo Gli ultimi giorni di Giangiacomo Feltrinelli (Chiarelettere, pagg. 234, euro 18). Raccontano un'illusione e un fraintendimento, uno scollamento dalla realtà e una sottovalutazione, l'ansia di voler essere preso sul serio, l'amara sensazione di restare sempre e comunque «una vacca da mungere», quello che ha i soldi, in parole povere, e che a dare i soldi dovrebbe limitarsi. La rivoluzione, quando e se ci sarà, non è compito suo, ma delle mille sigle politico-ideologiche che in quella fine anni Sessanta hanno preso a impazzare, dei mille leader che della rivoluzione hanno fatto una professione e insieme un gioco, rischioso magri, ma fino a un certo punto, contro lo Stato, ma nel confortevole clima intellettuale che quell'essere contro benedice e l'essere pro addita al pubblico ludibrio: repressione, strategia della tensione, golpe in agguato e istituzioni corrotte... Da un lato, in fondo, ci sono sempre e comunque dei «compagni che sbagliano», ma che, sempre e comunque, appunto, sono «compagni», dall'altro c'è il moloch dello Stato fascista, quello che non si cambia, quello che va abbattuto È, lo si capirà nel tempo, una gigantesca tragicommedia degli equivoci, ma è il tempo quello che a Feltrinelli manca: lui sogna prima un movimento separatista in Sicilia, poi la Sardegna come la Cuba del Mediterraneo, con annesso bombardamento di Porto Cervo, infine un esercito rivoluzionario che non esiste nella pratica, ma che nella teoria ha tutto dentro la sua testa e di cui, naturalmente, è il comandante in capo. Quando passerà all'azione diretta, lo farà in fondo per dimostrare che, sotto il profilo operativo, il comandante in capo dà l'esempio, è in prima linea, sceglie l'obiettivo da colpire, un obiettivo che nella sua immaginazione precipiterebbe l'Italia nel buio, così come nel 1965, a New York, l'improvviso black out della corrente aveva lasciato senza elettricità circa 30 milioni di americani del Nord-Est del Paese. Milano però non è New York e la manualità di Feltrinelli è talmente impacciata da avere difficoltà a piantare un chiodo nel muro per appendervi un quadro
Ciò che allora razionalmente Feltrinelli è ancora in grado di analizzare, nel biennio successivo cede però il passo a una nuova forma di ossessione che sostituisce e in fondo sublima quella da lui così ben diagnosticata. È l'ossessione del golpe, la controrivoluzione in atto che minaccia ogni forma di speranza e quindi giustifica, in quanto autodifesa, «il misticismo della montagna». Grandi riporta in proposito le considerazioni del giudice Guido Viola, il magistrato incaricato di indagare sulla sua tragica fine. Secondo quest'ultimo, «l'idea di un colpo di Stato di destra non era peregrina o fantapolitica», né «priva di un certo contenuto di serietà e fondatezza». Lo stesso Grandi, a proposito del cosiddetto Golpe Borghese osserva che «si cercò di far passare il tutto come una commedia all'italiana, ma così non era stato. Si era trattato effettivamente di un piano eversivo». Sull'esistenza di quest'ultimo, non c'è da dubitare, il che però non dice nulla sulla sua reale efficacia. Fatto sta che «i centri del potere nella capitale» non vennero occupati, se non, di notte e per un paio d'ore, il ministero degli Interni, «l'appoggio di unità militari e soggetti più o meno disparati e disperati», ovvero guardie forestali e estremisti di destra, fa capire quanto velleitarismo ci fosse dietro.