Sarebbe facile fare un paragone con il padre. Geniale, eclettico, informale. Ma, come con tutti gli artisti che sono, a loro volta, figli d'arte - e, per di più, eredi di un cognome artisticamente importante come il suo - si rischierebbe di fargli un torto.
E, allora, niente paragoni. Paolo Jannacci è un genio a modo suo. Certo, il seme - papà Enzo - deve pur averlo immesso per farlo poi germogliare. Il talento non mancava nel suo codice genetico. Ma un'eredità così, va fatta fruttare. Non è facile, per niente. Lui, però, ci è riuscito. Eccome.
Ieri sera, sul palcoscenico del Teatro Alfieri di Castelnuovo di Garfagnana, Jannacci, con la sua incredibile band, ha dimostrato tutte le sue doti da performer. Ha infiammato la stagione teatrale con uno spettacolo folle, di altissimo livello, che ha conquistato il pubblico a suon di applausi.
L'inizio è stato tutto suo. Uno stupendo assolo al pianoforte, al quale è subentrata, con discrezione, la timida tromba di Daniele Moretto, quindi l'ipnotico basso (elettrico) di Marco Ricci, il tutto accompagnato dall'indiavolata batteria di Stefano Bagnoli. Un cast davvero d'eccezione. Nell'aria risuonano i ritmi incalzanti del bebop, alla Charlie Parker. Il set è quello di un fumoso jazz club di Harlem. Impossibile non farsi trascinare.
Poi, all'improvviso, l'atmosfera si fa latina. Le luci da blue - malinconiche, fredde - si fanno calde, accese, tropicali. Ahi, Sudamerica! canterebbe il padre (citando Conte). Incontenibile Jannacci al piano. Si alza, si sposta, salta sul posto, si scompiglia la ricca chioma, si lascia andare a genuini attimi di entusiasmo. Discute con i musicisti e con il pubblico. Teatro, tanto teatro. Certo, siamo lontani dall'istrionismo del padre; ma neanche troppo.
Quindi una nota amara con Giovanni, il povero telegrafista dal cuore spezzato. Ecco che finalmente esce fuori la voce di Paolo, per la prima volta, anche se, all'inizio, è solo un 'piripiripi', ma poi la storia si spiega in poesia. Difficile descrivere un sentimento complesso come l'amore utilizzando l'alfabeto morse, ma Jannacci - incredibilmente - ci riesce.
In mezzo, tanti sketch comici alternati da brani divertentissimi, come quello del palo della banda dell'Ortica, ripescato dal repertorio del padre, spassosissimo: in pratica, la storia di un criminale da strapazzo su un boogie d'antan.
Ed eccoci all'omaggio. Da autore di un libro - a sua volta folle - che ha fatto dialogare il maestro di Asti con - (nientepopòdimenoche) Woody Allen - il sottoscritto non poteva chiedere di più da Jannacci e dalla sua band: un tributo al grande, immenso, inarrivabile Paolo Conte. "Io e te..." intona l'artista milanese sulle note struggenti di "Parigi", perla incastonata nello sterminato archivio contiano. Paolo - sono omonimi lui e il maestro, che si stimano pure - si lancia anche in un'accennata onomatopea "alla Conte" - vero e proprio marchio di fabbrica - sussurrando "dap-du-dap-du-dap". Sublime.
Ancora "Io e te...", ma stavolta è il brano del papà (per inciso, grande amico di Conte). Lo scat al piano strega con il suo battere in levare. "L'avvenire è un buco nero in fondo al tram" recita il refrain. Lo canta a squarciagola un'intera generazione, ormai (sic!). Seguono una schizofrenica canzone su un fratricidio in cui, stranamente, si ride - e qui, l'animo jazz viene fuori prepotentemente fuori con la sua (apparente, of course) improvvisazione - e un omaggio alla donna, anzi a Vincenzina, che sembra di vederla lì, in carne ed ossa, davanti al cancello della fabbrica che aspetta...
Il finale è un crescendo. Come per i fuochi d'artificio. Prima un medley spropositato che mischia - non si sa come - Cochi e Renato ("E la vita l'è bela"), Enzo Jannacci ("Ci vuole orecchio") e Paolo Conte ("Messico e nuvole"); poi un momento più intimo, emozionante: Jannacci da solo sul palcoscenico, lui e il suo pianoforte, che parla al suo "vecchio" tramite le parole poetiche del compianto Luigi Tenco (altro inciso: Paolo Jannacci ha vinto, di recente, il Premio Tenco a Sanremo come miglior opera prima); infine - colpo di scena, l'ennesimo - se ne va dal palco, poi ritorna e comincia a ballare una danza tribale su un solo di percussioni. Vengo anche io? - chiede. Gli fa eco la platea: No, tu no!.
Il concerto si conclude con un brano in dialetto del padre Enzo: "El portava i scarp del tennis", il sogno d'amore di un barbone all'Idroscalo. "A volte un piccolo gesto può cambiare le cose" dice l'artista.
Signori e signore, anzi, signore e signori: Paolo Jannacci.
Foto di Tommaso Teora