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Scritto da andrea cosimini
Castelnuovo
03 Aprile 2023

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Un pugno allo stomaco, un tuffo al cuore. Ascoltare dalla viva voce del maresciallo parole – ahinoi oggi inflazionate – come amore, rispetto, fedeltà assume tutto un altro valore. Più sincero, profondo. Non solo è un toccasana per il cuore, ma pure una lezione di vita. Un ritorno alle cose vere, essenziali. Quelle che contano. Le stesse che definiscono una vita umana che può ancora definirsi tale.

Una medaglia d’oro al valor civile non cancella i sacrifici, le sofferenze. Non risana nemmeno le indelebili conseguenze sul corpo. Riconosce però il peso di quelle parole scritte in precedenza – appunto amore, rispetto e fedeltà – verso la divisa e le istituzioni che essa difende e rappresenta.

Giuseppe Giangrande porta ancora con sé i segni del suo rischioso mestiere. Quello di carabiniere. Lo stesso che a 17 anni, sulle colline palermitane, lo spinse ad abbandonare gli agi di una vita comoda, nella società civile, per tentare la carriera militare, affascinato dalla pulizia, dalla stazza e dalla personalità di quei ragazzi – già uomini – impegnati a difendere la sicurezza pubblica del paese. Lo stesso, che - in età più matura - lo trascinò verso la prima missione all’estero (in Libano) e che, nell’aprile di quello stramaledetto 2013, lo farà catapultare a Roma, davanti Montecitorio.

Una chiamata, un ordine dall’alto: dirigersi immediatamente nel vicino Palazzo Chigi e fare sbarramento per l’insediamento del neonato governo Letta. La piazza gremita, il caos. All’improvviso un uomo – poi fermato, identificato e arrestato – esplode dei colpi di pistola e ferisce due carabinieri in servizio. Uno di questi è proprio lui, Giuseppe Giangrande (l’altro è il collega Francesco Negri).

Voleva colpire la politica, ha ferito – e quasi ucciso – un uomo, un padre di famiglia che, quel giorno, stava solo facendo il suo dovere.

Come ricorda quel 28 aprile 2013?

“È stato un evento che nessuno si aspettava - tanto noi quanto le istituzioni politiche. All’improvviso, è venuto giù il mondo”.

Perché quel gesto, quegli spari?

“A suo dire, voleva fare un gesto eclatante perché riteneva che la politica fosse la causa dei suoi fallimenti – sia a livello famigliare che lavorativo. Non potendo passare, a causa dello sbarramento, ha colpito le istituzioni dello Stato. In quel momento c’eravamo noi ad ostruire il passaggio sulla piazza, per cui ha pensato bene che o un politico o un carabiniere poco cambiasse”.

Ha provato a rapportarsi con l’attentatore?

“No e, sinceramente, non voglio nemmeno interloquire con lui”.

Era consapevole del pericolo al quale si esponeva quel giorno?

“Vede, noi rappresentiamo lo Stato. Abbiamo prestato un giuramento e sappiamo che, nel momento in cui ci si arruola, ci sono dei rischi che si corre. Far parte delle istituzioni, vuol dire cercare – in un certo qual modo – di far rispettare la legalità nell’ambito territoriale. Sappiamo, quindi, a cosa andiamo incontro. Il pericolo si poteva incontrare anche facendo un semplice intervento in un’abitazione”.

Oggi come vive?

“Nonostante i danni che ho riportato - a livello fisico - cerco di tirare avanti. Vivo la vita giorno per giorno, sempre con l’aiuto di mia figlia, Martina, per me punto di riferimento imprescindibile e pilastro di appoggio. È lei il mio primo pensiero la mattina, quando mi alzo, e l’ultimo la sera, quando mi corico”.

Quale messaggio porta, oggi, agli studenti?

“Lo stesso che ho portato ai ragazzi delle scuole di Prato. Un messaggio di legalità, di lotta al bullismo, al cyber-bullismo, alle droghe e all’alcol”.

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