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Scritto da Andrea Cosimini
Barga
15 Settembre 2023

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Michele è nato nel 1991 con un’eredo-degenerazione retinico-maculare. In pratica: una degenerazione maculare ereditaria, alla quale poi si è aggiunta un’ulteriore patologia qualche anno dopo. È gravemente ipovedente. Un fattore questo che, di per sé, avrebbe potuto scoraggiarlo ad intraprendere un percorso scientifico, ma che, invece, ha rappresentato uno stimolo in più, per lui, per abbattere certi pregiudizi sempre più radicati nella società.

Michele aveva una passione: la matematica. E l’ha perseguita, con sacrificio ed impegno, a costo di andare contro gli stereotipi di un mondo esclusivo che vorrebbe precluse certe strade a determinati tipi di individuo. Prima ha conseguito una laurea magistrale in matematica all’università degli studi di Salerno, poi un dottorato di ricerca in scienze matematiche ed informatiche alla “Federico II” di Napoli, dimostrando – con la sua stessa testimonianza – che non è un pugno di cellule in meno a determinare la disabilità, ma il contesto che ci circonda.

Michele, però, ha fatto di più. Ha scritto un libro, “L’Universo tra le dita” (Edizioni Efesto, 2021), nel quale ha voluto raccontare dieci storie di scienziati ipovedenti o non vedenti come lui che, al netto della loro genialità, hanno avuto comunque il merito di credere in sé stessi grazie anche al fondamentale sostegno delle persone che hanno scommesso su di loro.

Il libro, ben scritto e curato, ha un piglio narrativo appassionato e coinvolgente. Nonostante possa essere annoverato nella categoria dei saggi, ne rifugge il linguaggio accademico per lanciare un messaggio al lettore di fiducia e speranza: ogni strada è percorribile per chi ha il coraggio nel cuore.

Come ha selezionato le storie del libro?

“Non volevo scrivere l’enciclopedia degli scienziati ipovedenti o non vedenti. Quindi ho fatto una selezione usando un criterio molto semplice: ho scelto coloro sul cui conto potevo trovare un maggior numero di informazioni possibili. Non mi interessavano, infatti, solo i dati della loro carriera scientifica; volevo anche sapere qualcosa di più sulla loro vita, per scoprire il contesto nel quale sono vissuti”.

Cosa ha trovato nelle loro storie di successo?

“Certamente, la genialità. Ma anche un contesto inclusivo che li ha fatti fiorire. Leggendo le loro vite, ho pensato: chissà quanti geni abbiamo perso – e perdiamo – perché non abbiamo dato – o non diamo – loro la possibilità di emerger seguendo il dogma del “si è sempre fatto così…”

Cosa intende per contesto inclusivo?

“La famiglia, gli amici e la scuola sono i primi contesti che ci permettono di liberarci dalla logica dell’autocommiserazione e dal pietismo quando si parla di disabilità. Dobbiamo smettere di parlare del disabile come se fosse un super-eroe; così come dovremmo rifuggire la smielata compassione con le lacrime agli occhi. La fiducia in partenza è il primo passaggio del circolo virtuoso dei processi di inclusione che fanno bene a tutti”.

C’è una storia indicativa, in questo senso, nel suo libro?

“Beh, potrei citare quella dell’entomologo François Huber e del suo giovanissimo assistente François Burnens. Quest’ultimo, dopo 15 anni a fianco di un entomologo non vedente, è capace di tornare nel suo paese per lavorare nell’amministrazione della giustizi, lui che, 15 anni prima, era analfabeta. Come vede, questo processo di inclusione non ha solo arricchito entrambi, lo scienziato non vedente che poté seguire la strada del suo talento e l’ex domestico arrivato a Pregny senza speranza di alfabetizzazione, ma l’intera comunità con una conoscenza condivisa”.


Qual è la situazione attuale in Italia in tema di disabilità?

“Siamo molto indietro rispetto ad altre realtà. Specialmente rispetto a quelle virtuose: l’Inghilterra e i paesi scandinavi. In Inghilterra, addirittura, ci sono giornalisti che commentano le partite di calcio solo con l’udito. Qualcosa, però, si muove anche da noi. Ci sono delle eccellenze poco valorizzate, voglio pensare in positivo, nonostante permanga una narrazione del disabile alienante dalla società. Non è un caso che meno di un ragazzo non vedente su dieci metta su famiglia. Questo dato è indicativo”.

Qual è stata, finora, la risposta al suo libro?

“Il libro è arrivato alla nona ristampa ed ha superato, quindi, le mille copie. Un risultato clamoroso per un saggio. Ha vinto un Oscar della letteratura al ‘Premio Città di Cattolica’ ed altri riconoscimenti. Anche se, devo dire, i premi più belli sono altri: ho ricevuto molti messaggi dai ragazzi con disabilità, dalle loro mamme, dai loro insegnanti, i quali mi hanno scritto spiegandomi quanto abbia fatto bene loro il libro. Questo è il premio più grande per me”.

Come si assume autoconsapevolezza secondo lei?

“Il primo passo da fare è sempre un lavoro su sé stessi. Rendersi conto di avere, in maniera diversa, le stesse possibilità e gli stessi diritti degli altri. Ognuno di noi ha abilità diverse. Anche due vedenti hanno, se confrontati, capacità differenti. Tutti, però, hanno il diritto di seguire la strada che il proprio talento suggerisce. E la comunità, dal canto suo, ha il dovere di mettere tutti nelle condizioni di farlo”.

Ultima domanda: cosa fa oggi Michele Mele?

“Svolgo attività di ricerca all’università degli studi del Sannio a Benevento su problemi di ottimizzazione combinatoria - ovvero la scienza degli algoritmi – , collaboro con l’ONU al progetto “Science in Braille” e coordino il progetto “Accessibilità all’Arte” del Touring Club Italiano, di cui sono ideatore: un’iniziativa volta alla creazione di riproduzioni tattili di beni artistici bidimensionali per ipovedenti e non vedenti. Collaboro inoltre con numerose testate giornalistiche tra le quali la rivista specialistica musicale Bright Young Folk, il periodico di attualità Yorkshire Bylines ed il sito sportivo Il Calcio a Londra”.

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