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Scritto da Redazione
L'evento
29 Marzo 2020

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Con Stefano Cecchi ci conosciamo da tanti anni. Il sottoscritto lo ha sempre stimato e lo ha sempre letto con piacere visto che è uno dei non troppi giornalisti capaci di avere una prosa non solo leggibile, ma anche, e soprattutto, godibile. Poi, qualche lustro fa, abbiamo avuto l'occasione di lavorare anche gomito a gomito, impensabile oggi, ai tempi del Coronavirus. Ed è stata una proficua occasione di crescita. Cecchi è un collega di grande spessore umano e molto intelligente.

Stefano Cecchi ai tempi del Coronavirus: che effetto fa a uno come lei, che fa questo mestiere da sempre, una 'disavventura' come questa?

Io sono smarrito, come credo tutta la nostra generazione. Perché non eravamo pronti, pensavamo che le difficoltà, la paura, il senso della morte, ci fossero negati, che il futuro sarebbe stato sempre in discesa. Perché né io né lei abbiamo vissuto grandi tragedie collettive e la nostra generazione era convinta che, sepolto il Novecento, con l'avvento del nuovo millennio si fossero messi in archivio per sempre il dolore, la sofferenza, la paura della guerra e che il futuro sarebbe stato una strada senza ostacoli. Invece non è stato così. Anche noi, adesso, dobbiamo fare i conti con la paura, con questa insolita situazione, con la fragilità, con cose con cui pensavamo di non dover fare più i conti.

Sia sincero: lei ha davvero paura di questo virus?

Io non l'avevo e, per questo, mi cospargo il capo di cenere. Pensavo che fosse una cosa lontana. Mi sono aggrappato a quelle persone che pensavo ne sapessero più di me e che ci raccontavano che era una influenza appena più forte. Vi ricordate l'intervista a Maria Rita Gismondo dell'ospedale Sacco di Milano? Pensavamo che non appartenesse all'Occidente e quindi all'inizio l'ho presa molto alla leggera. Quando, invece, ho toccato con mano cosa è il Coronavirus, quando persone che conosco mi hanno chiamato dicendomi sono anche io malatosono stato in ospedaleho avuto bisogno dell'ossigeno, allora ho realizzato. C'è una canzone di Fabrizio De André che dice il dolore degli altri è dolore a metà. Anche a me è capitato questo. Quando il dolore si è avvicinato, ha colpito persone a me vicine, però, ho capito qual è l'orrore di questa malattia e adesso sono preoccupato. E molto.

Per lei o per la sua famiglia?

Sono sincero. Sono preoccupato di ciò che potrebbe succedere alla mia famiglia se io mi ammalassi. Ho una mamma di 90 anni che non vedo, da venti giorni, in casa una figlia di otto anni e una moglie che non vedono persone dallo stesso periodo. L'unico che vede persone sono io e questo perché sono 'costretto', perché, oggi, è un dovere andare al lavoro, perché frequento persone e quindi sono quello più a rischio. Ciò mi crea una fragilità. Ho paura di ammalarmi per poi fare ammalare anche loro.

Saremo onesti anche noi con lei. Al contrario di quanto ci ha appena detto, e pur avendo anche noi una mamma di 95 anni che, tuttavia, vediamo, questo sì, ogni giorno, siamo più preoccupati per ciò che queste misure draconiane adottate per contrastare il virus potrebbero arrecare a tutta quella fascia di popolazione che, per fortuna o per caso, è meno a rischio contagio.

Credo che ogni persona di buon senso debba pensare a questo, perché tutti noi stiamo sì cercando di contenere una malattia, ma non sappiamo l'altra malattia, quella economica, quanti morti potrà fare. E, quindi, anche io ho sperato che alcune ricette che sono girate nei giorni scorsi potessero essere auspicabili. Mi riferisco alla cosiddetta immunità di gregge, che fosse possibile, cioè, attraversare questa fase senza dover chiudere tutto, senza dover prendere le misure che lei chiama draconiane. Però, mi chiedo, detto che capisco ciò che lei dice, se lei fosse alla guida di questo paese se la sentirebbe di dire alla gente 'tornate in fabbrica', 'riaprite i ristoranti', 'riaprite i bar' in costanza di queste morti? Anche ieri l'Italia ha avuto, se non sbaglio, mille morti e se io avessi in mano le leve del potere anche io direi di chiudere tutto perché in questo momento credo che ogni altra scelta non sia possibile.

Mi scusi Cecchi, ma non crede che prima di far chiudere tutto e blindare, si fa per dire, la gente in casa, avrebbero dovuto pensare a come garantirle la possibilità di avere a disposizione denaro sufficiente per andare avanti? E cioè, non pensa che, vista la impossibilità economica di garantire tutto ciò, sarebbe forse più giusto, almeno per le regioni che hanno dati molto diversi dalla Lombardia, permettere alla gente di scegliere liberamente se rischiare di ammalarsi oppure correre il pericolo di restare senza soldi e piombare nella disperazione?

Il problema non è il libero arbitrio perché io potrei anche avere il diritto di rischiare di contrarre la malattia. Ciò di cui io non ho diritto è di contagiare l'altro. Io non ho il diritto di far ammalare un altro per la mia malattia. E affinché ciò non avvenga l'unica ricetta è quella di chiudersi in casa. Poi, capisco il dramma economico, ma io non sono né un virologo, un economista o un medico e c'è un momento in cui credo si debba dire con forza che uno non vale uno. Questo è un momento in cui bisogna affidarsi all'esperienza di chi sa più di noi e io voglio pensare e sperare che nel prendere queste misure il Governo abbia sentito chi ne sa più di me e più di lei, cioè gli esperti. E c'è un momento quando la situazione è cosi drammatica, in cui la decisione non deve essere in mano a me o a lei, ma a chi ne sa più di noi. A me fa paura, spesso, il dibattito che vedo attraverso Internet. A me fanno paura le posizioni di certe persone che, come me, non sanno niente, ma hanno il diritto di dire tutto. C'è un momento, ripeto, in cui occorre affidarsi a chi queste cose le conosce. Se io entro in una sala operatoria, mi rimetto a ciò che fa il chirurgo. Non insegno io al chirurgo come incidere o all'anestesista come usare l'ossigeno. Questo è un paese attualmente in sala operatoria e dobbiamo fidarci di chi, in questo momento, ha in mano il bisturi e le leve dell'ossigeno.

Non ci venga a dire che queste leve lei le lascerebbe nelle mani della coppia Casalino-Conte?

Anche io avevo mille perplessità su questo assetto di Governo. Anche io avrei preferito ci fosse stato qualcun altro, ma nel momento dell'emergenza il comandante è Conte e io non me la sento di ammutinarmi in questo frangente.

Cecchi sia io sia, presumibilmente, lei, almeno per il momento non siamo alla frutta e ci riferiamo all'aspetto economico. Lei meglio di me, tuttavia, saprà che in Italia ci sono milioni di persone che sopravvivono grazie al lavoro precario quando non, addirittura, abusivo. E sa bene che si fa presto a dare lezioni come fanno Conte o tutti i politici, quando si guadagnano 12 mila euro al mese con o senza Coronavirus. Lei mi deve spiegare, però, perché le persone che, ad esempio, vivono in Basilicata o in Molise, ma non solo, devono subire le medesime restrizioni di chi vive in Lombardia e cioè accettare che si trattino situazioni differenti in maniera eguale. Non le sembra una contraddizione manifesta questa?

Io le rispondo con una premessa. Io non sono un virologo...

A proposito, ma tutti questi virologi, fino ad oggi dove erano stati? Sembra che il nostro Paese sia diventato una fabbrica di virologi.

Le rispondo con una battuta. Io li conosco questi virologi. Alla fine, probabilmente, faccio parte di loro perché noi siamo quelli che quando ci sono i mondiali di calcio, diventiamo 60 milioni di commissari tecnici, quando ci sono le gare di vela, diventiamo tutti velisti, quando ci sono le crisi economiche tutti economisti, a Sanremo tutti esperti di canzonette. E quindi anche in questo caso ci siamo fatti trasportare dall'onda. Il problema non è sentirsi virologi, il problema è scatenare la paura, è far diventare scienziato chi non lo è, è far divenire guru chi non merita di esserlo. Io non so se lei ha visto i filmati che girano in rete, da quello che voleva il virus creato in un laboratorio cinese alle invettive di Tullio Solenghi. Ciò che fa paura è questo scatenare dell'odio, del sospetto, della paura, Questo è il momento nel quale dovremmo coltivare altro. Dovremmo coltivare il senso della solidarietà, dovremmo zappare il campo della misericordia, dovremmo irrigare l'albero della fratellanza perché, e arrivo alla domanda precedente, da questa crisi o ne usciamo tutti insieme o non ne usciamo. Io voglio sperare e torno al fatto degli stipendi, che chi sette giorni fa è andato sui terrazzi a cantare Azzurro o altre canzoni, conservi quello spirito solidale rispetto a chi soffre in modo che quando torneremo in strada, si ricordi del cameriere che ha perso il posto o dell'operaio in cassa integrazione. E accetti anche l'idea  che questo Paese possa chiedere dei sacrifici a chi, come me, ha più degli altri per compensare ciò che gli altri perderanno. Se non passa questa idea della solidarietà questo paese non si rialza.

Ma lei Cecchi ci va in  giro o sta sempre seduto davanti al Pc in redazione?

No guardi, io vivono in due bolle: una è casa mia dalla quale esco raramente per fare la spesa una volta ogni dieci giorni e l'altra è l'ufficio, a Firenze, dove mi reco per lavoro avendo messo a casa tutti gli altri giornalisti perché alla Nazione, in sede, andiamo solo io, il mio vice e chi fa la notte mentre gli altri lavorano a casa con il computer.

Bene, noi che, invece, siamo soli alla Gazzetta, ce ne andiamo in giro tutti i giorni a vedere che cosa succede e, ad essere sinceri, tutta questa solidarietà che lei invoca non solo non la vediamo perché, oggettivamente, in giro c'è poca gente, ma, anche perché, con misure che impediscono il solo avvicinarsi a una distanza di uno-due metri, questa sorta di fratellanza è pressoché impossibile.

Io la penso in maniera completamente diversa da lei. Io vedo i volontari sulle ambulanze che continuano a fare i volontari, le cassiere del supermercato, quelle che prima nemmeno guardavo quando facevo la spesa con un senso di indifferenza da parte mia e alle quali ora, invece, mi viene da dire grazie così come al vigilantes. Magari sbaglio io, ma sento che in questa difficoltà, dentro di noi, si amplificano il rispetto verso l'altro, il senso di comunità e le donazioni che stiamo registrando fanno parte di questo aspetto. A me pare che questo paese non sia così canaglia come si racconta, penso che si salverà proprio per questa roba che le racconto. Noi siamo il paese che ha creato le misericordie, le pubbliche assistenze, che ha più volontari al mondo. Io continuo a pensare che questo paese abbia gli anticorpi civili per reagire a questa emergenza.

Professionalmente parlando, lei, con la sua esperienza ultratrentennale, come giudica il clima di indubbio terrorismo mediatico diffuso a piene mani dalle reti televisive nazionali e non soltanto? Si poteva evitare di far vedere scene e mandare in onda trasmissioni h24 che ad altro non sono servite se non a creare un'atmosfera di insicurezza e di paura spesso esagerate?

Sì, però insisto su un tasto, quello della divisione. Questo non è il momento di dividerci. Il virus è Caporetto e tutti noi dobbiamo stare sul Piave. Non ci devono essere zone franche, sennò il virus passa. La cosa che più mi dà noia in questo momento sa qual è? E' l'informazione militante, di destra e di sinistra, quell'informazione che usa il virus per affermare una tesi di parte. Io, in questo momento, questa roba qua non la reggo. Non so se lei è d'accordo con me. Se Conte è un buon presidente del consiglio o è un disastro, lo giudicheremo fra mesi e sicuramente lo giudicheremo. Ci sarà un momento in cui apriremo un dibattito profondissimo su come è stata gestita questa crisi, se le misure che lei ricordava sono state giuste o sono state un disastro, ma non è questo il momento. Io non vorrei essere biblico, ma nell'Ecclesiaste c'è una frase bellissima: c'è un momento per raccogliere pietre e un momento per scagliarle. Questo non è il momento si scagliare pietre contro nessuno, questo è il momento in cui, tutti insieme, ci si rimbocca le maniche e si scava la trincea. Vedere persone che cercano il consenso personale lucrando sulla tragedia è una indegnità.

Un'ultima domanda sul virus: lei sa meglio di me che questa malattia non è un rubinetto che si chiuderà o aprirà a piacimento o in un determinato istante. Continueranno ad esserci dei contagi, sia pure in maniera minore, ma non crede che già i pochi contagiati in molte e regione del centro sud dovrebbero spingere a una riapertura progressiva e non, invece, a una esasperazione delle misure contenitive e coercitive? Che cosa si vuole per dare la possibilità all'economia e alla gente di riprendere a respirare?

Guardi, come al solito io non sono un esperto, ma credo che questo paese dovrà abituarsi all'idea di una ripartenza differenziata, ossia di andare a due velocità. Perché il virus colpisce tutti, non c'è dubbio, ma le statistiche ci raccontano che i più colpiti sono gli anziani. E allora a me convince l'idea di una Italia che riapre a metà, che protegge le persone dai 60, 65 anni in su lasciandole a casa anche nelle prossime settimane e permette alla persone 'più protette', più giovani e più forti di tornare a una vita quasi normale. Abbiamo visto che i bambini sono i più protetti e quindi spero che le scuole riaprino presto, magari non escludendo il tampone a tutti i ragazzi, così da escludere che chi va a scuola non è più contagiato. Però dovremo accettare l'idea che proprio per proteggere le persone anziane queste possono restare in casa per un periodo più lungo, ma non c'è dubbio che il paese debba fare ogni sforzo per tornare ad una normalità perché se questo paese dovesse restare con il bandone tirato giù, c'è davvero il rischio che non possa più riaprire.

Lei è uno stimatissimo opinionista sportivo. Che riesce, in un mondo dove il denaro sembra farla, ormai, da padrone, a trovare sempre spunti per ricondurlo alla poesia da cui è nato. Il calcio ai tempi del Coronavirus non le sembra, in un certo senso, una bestemmia?

Guardi, che il calcio fosse un pianeta grottesco, sideralmente lontano dalla realtà, io già lo pensavo, ma l'emergenza ha squarciato il velo e lo ha mostrato a tutti. Grandi, lei si rende conto che questo paese ogni giorno piange 800-900 persone e c'è gente che si lambicca e discute se lo scudetto è più giusto assegnarlo ai play-off o darlo alla squadra x, se in serie B debba andare il Lecce o la Spal o giostrarselo con la monetina. Il calcio è fuori dalla realtà perché in questo momento dovrebbe fare solo una cosa: stare in silenzio, aspettare che passi la burrasca e, poi, iniziare a riparlare. Il calcio è il fenomeno più straordinario che riempie il tempo libero. Il calcio è passione, è emozione e per realizzarsi ha bisogno di leggerezza, di gioia, di felicità. E a lei sembra che in questo periodo ci siano le condizioni per cui si possa andare allo stadio per alzare una bandiera e magari arrabbiarsi se l'arbitro fischia un fuorigioco che non c'è? Il calcio deve andare, come noi, in letargo, congelare tutto, aspettare che torni la normalità e con essa una parvenza di felicità e da lì riprogrammare. Oggi ogni parola spesa sul calcio è una parola buttata via e fuori luogo. Ma le pare che nel momento in cui gli operai rischiano di perdere il posto di lavoro, in  cui i commercianti non hanno più incassi e non sanno cosa succederà loro, io posso pensare se è giusta la moviola in campo oppure no. Non le sembra una incongruenza?

Lei è uno dei più apprezzati commentatori delle radio.

Io in questo momento ho difficoltà a parlare di calcio, perché il calcio era la mia meravigliosa fuga dalla realtà, era la mia isola felice nella quale usavo in pieno il balocco della mia fantasia. Come posso oggi giocare o divertirmi quando intorno a questa isola ci sono la tragedia, il dolore, la sofferenza? Io non ce la faccio.

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