E' morto all'età di 62 anni Michele Manzotti, giornalista e collega a La Nazione di Firenze. Se ne è andato quando, ormai, stava assaporando la possibilità di dedicarsi anima e cuore, oltreché tempo, alla sua passione principale, la musica, che non solo non lo aveva mai abbandonato, ma che, con gli anni e il mestiere, si era anche accresciuta. Noi lo avevamo incontrato, per la prima, volta, tanti anni fa, in un autunno-inverno compresi tra il 1988 e il 1989. Anche lui, infatti, come altri 30 candidati, si era aggiudicato una borsa di studio messa in palio dalla Poligrafici Editoriale presieduta da Andrea Monti Riffeser e gestita-guidata, tra gli altri, da un grande maestro di giornalismo quale fu Alberto Marcolin. Ci ritrovammo, tutti i vincitori del concorso, a Bologna dove restammo per ben tre mesi prima di essere spediti nelle numerose redazioni dei giornali - all'epoca Il Tempo di Roma, Il Resto del Carlino di Bologna, La Nazione di Firenze e Il Piccolo di Trieste - a farci le ossa tra lo scetticismo di alcuni futuri colleghi già professionisti i quali mal gradivano, soprattutto se sindacalmente impegnati, l'arrivo di questi parvenu scelti direttamente dall'azienda e, aloro avviso, potenzialmente in grado di rovesciare le gerarchie future.
Manzotti era un fiorentino doc e apparteneva ad un nucleo di giovani provenienti, proprio, da Firenze tra i quali ricordiamo Alberto Severi, Daniela Cavini e altri ragazzi e ragazze da tutta la Toscana. Michele era un simpaticone, sempre pronto al sorriso, mai aggressivo o prevaricatore, attento alle lezioni e che ci guardava con due occhi così e forse anche qualche domanda vedendoci impegnati in pantegrueliche colazioni nella sala mensa della Poligrafici in via Enrico Mattei a Bologna. Con lui e anche con molti altri prendevamo, il venerdì sera, il treno che ci riconduceva ognuno a casa propria per il week-end, lui a Firenze noi, invece, a Roma.
La sua prima destinazione fu Rovigo, in mnezzo alla nebbia e con l'amico Severi. Poi, anni dopo, finalmente, il ritorno alla sua amata Firenze. Ci incrociavamo raramente anche se, tra noi che siamo stati borsisti di prima generazione - ce ne fu anche una seconda, ma alla terza l'azuiendam, probabilmente, dovette rinunciare per le pressioni subite - era rimasto un forte legame affettivo e di simpatia che ci portava a sentirci appartenenti ad una repubblica indipendente e autonoma dal resto del corpo redazionale. Questo, almeno, all'inizio, poi tutti finimmo nel calderone e diventammo quel che gli altri erano sempre stati.
L'ultima volta che lo vedemmo, fu quando venne a trovarci a Lucca, durante un suo giorno di corta, ossia di riposo settimanale, inviato presumibilmente per vedere se era il caso di convincerci a rinunciare a lavorare nonostante lo sciopero proclamato dai colleghi del gruppo. Scherzammo, ridemmo rievocando i tempi andati, ma lui che, ormai, ci conosceva, seppe chiederci con garbo quello che non potevamo concedere. Noi siamo sempre stati una razza autoctona, anzi, facevamo razza per conto nostro e di fronte a chi, più o meno giustamente, faceva sciopero spesso a prescindere, preferivamo agire di testa nostra e non certo per carrierismo - impossibile farlo per noi in un giornale dove si andava avanti non solamente per meriti - ché di fare i capservizio non ci è ma interessato, bensì perché eravamo arrivati ad un punto della nostra esistenza professionale in cui quello che contava erano solo e solamente i soldi che guadagnavamo. Brutta bestia quando si arriva a concepire il lavoro così.
Salutammo Michele che tornò a Firenze a riferire. Qualche mee dopo ci beccammo l'esposto, corredato da centinaia di pagine a dimostrazione della nostra incredibile capacità produttiva durante i giorni di scioepro, che il comitato di redazione aveva presentato all'ordine dei giornalisti di Roma. Fu, quello, il primo di una lunga, interminabile serie che continua ancora oggi anche se per ben altre ragioni.
Ci ha chamato Enrico Salvadori per comunicarci la scomparsa di Manzotti. Era, Michele, una persona alla quale non potevi non voler bene. Non conosceva l'invidia e nemmeno l'ambizione sfrenata. Era una persona molto umana e parlarci era un piacere per l'anima, riusciva a incazzarsi di rado e, comunque, a noi non era mai capitato di assistervi.
Cogliamo questa occasione per mandare un forte abbraccio alla sua famiglia penando a chissà quante cose avrebbe potuto e voluto fare una volta smessi i panni del giornalista per assumere quelli, che gli si addicevano sicuramente di più, di critico ed esperto musicale.
La vita, a volte, toglie proprio quando è arrivato il momento di prendere. Scherzi del destino, direbbe qualcuno, inesorabili e inevitabili realtà, aggiungerebbe qualcun altro.