Il 25 aprile è una data battesimale dell’Italia. Ma che cosa tiene a battesimo?
Per quelli della generazione che fu partecipe degli eventi e per quelli della mia generazione che fu educata dalla precedente, il 25 aprile tiene a battesimo la liberazione. E celebra, questa data, le virtù eroiche, il coraggio, la dignità, la sofferenza e anche il martirio di chi si batté, vinse e resitituì l’Italia alla libertà. In una parola, il 25 aprile è la data della celebrazione della Resistenza, dunque celebrazione della vittoria di una parte sull’altra, di alcuni Italiani contro altri Italiani.
E’ così ancor oggi? No, non è più soltanto così. La storia si fa basandosi su fatti. Ma nessun fatto della storia è tale senza una interpretazione che gli dia un senso. E l’interpretazione storiografica oggi più diffusa dice che negli eventi fra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 si ravvisano non una, bensì tre guerre: una guerra contro la Germania (si ricordino le parole della toccante canzone “Bella ciao”: «una mattina mi sono alzato ed ho trovato l’invasor»); una guerra fra Repubblica Sociale e Regno d’Italia; una guerra ideologica tra fascismo e antifascismo. La Resistenza è uno dei soggetti di una di queste guerre. Assumerla ad emblema di tutte, farla, da sola, assurgere al rango di unica contesa, considerarla isolatamente il simbolo della libertà contro l’oppressione e il regime antidemocratico è riduttivo sul piano storico e sbagliato su quello etico. E poiché sono proprio i princìpi etici quelli che dànno senso ad una celebrazione, quelli che fanno di una data una fonte di ispirazione, è su questi princìpi che vorrei richiamare l’attenzione.
Prendo, tra le molte che potrei citare, due lettere di condannati a morte.
In una si dice: «Mammina mia tanto cara, ... Ho amato tanto questa Italia martoriata e divisa che anche se apparentemente oggi pare di no, cado per il mio Paese».
In un’altra lettera si dice: «Caro Papà e tanto cara mamma, ... Ho amato tanto l’Italia e la mia idea e per essa sono pronto al sacrificio supremo... Ama anche tu la cara Patria nostra. Se hai qualche idea, professala e per essa sii pronto a dare la tua vita».
Persino le parole sono identiche e intercambiabili. Ma chi ha scritto l’una e chi ha scritto l’altra lettera? La prima è di Renzo Scognamiglio, un partigiano della VI Divisione Alpina Canvesana Giustizia e Libertà, fucilato senza processo il 22 marzo 1945. La seconda è di Armando Marchese, un esponente del fascismo repubblicano di Voghera, fucilato il 4 novembre 1945.
Che significa questo comune richiamo, da opposte sponde, alla Patria divisa, all’Italia, alla dignità, al coraggio, alla libertà di professare e credere nelle proprie idee?
Credo che significhi due cose. La prima: che non tutti i fascisti lottarono a favore di un regime e contro la libertà. La seconda: che non tutti gli antifascisti lottarono a favore della libertà e contro un regime. Le lettere ci dicono che gli uni e gli altri lottarono a favore della patria e della libertà, ma avevano diverse concezioni della patria e della libertà. C’è chi lotta per la libertà e la sente assicurata dal fascismo; c’è chi lotta per la libertà e la sente garantita dal comunismo.
Oggi possiamo dire che furono due tragiche illusioni. Ma possiamo dirlo perché la storia dell’umanità, non solo quella italiana, ha mostrato che sia il fascismo sia il comunismo sono falliti. E perché la nostra idea della libertà, quella che si è imposta all’una e all’altra, è diversa dall’una e dall’altra.
Ciò che non possiamo dire, ciò che non dobbiamo dire, è che solo gli uni avevano ragione, solo gli altri torto. Se ci impegniamo a ciò, se riconosciamo che ci fu retta coscienza da una parte e dall’altra, che ci furono autentiche professioni di fede da ambedue i lati, allora siamo anche in grado di dare un senso diverso, più alto, più unitario, e veramente battesimale, alla nostra celebrazione. Possiamo, e io credo che dovremmo dire, dire che il 25 aprile non è la festa della Liberazione ma la festa della libertà. La nostra libertà, la libertà liberale, la libertà democratica.
Ecco perché dobbiamo rendere omaggio ai caduti di entrambi i fronti. Non per convenienza politica, ancor meno per calcolo di partiti e meno che mai per richiamo retorico. Ma per riconoscere le nostre radici e per apprezzare i nostri princìpi.
Infine, mi sia consentita una considerazione finale. L’Italia di oggi deve la sua libertà ai nostri caduti di ieri. Ma fra quei caduti non dobbiamo dimenticare gli angloamericani, proprio oggi che l’Italia vive una fase di guerra contro regimi e massacri alleata con l’Europa e gli angloamericani. La libertà che noi oggi celebriamo è un valore universale. Dobbiamo difenderla per noi e per gli altri contro chi, oggi come ieri, intende invece negarla. Valga questa nostra festa anche per ricordare chi è ancora vittima dell’oppressione.
Postfazione di Aldo Grandi
Era il 25 aprile 1999, esattamente ventiquattro anni fa. Marcello Pera era al suo primo mandato da senatore di Forza Italia, nella sala Ademollo. Il suo intervento, che qui riproduciamo e che potrebbe benissimo essere stato scritto appena ieri, suscitò polemiche e critiche a cominciare da quelle di Maria Eletta Martini. Lo ripubblichiamo convinti della sua saggezza - dell'intervento e del suo autore - Se anche un solo, uno!, presidente della repubblica avesse detto, nel frattempo, le stesse cose, la pagina forse si sarebbe chiusa e gli italiani potrebbero, realmente, se non festeggiare, certamente celebrare, uniti, la libertà. Invece anche l'attuale presidente della repubblica Sergio Mattarella non va, come dovrebbe, in questa giornata distante, ora, ben 78 anni da quando avvenne, all'altare della patria, poi, al cimitero di Anzio, poi, in un qualunque altro luogo simbolico. No, Mattarella va a rinfocolare, qualunque cosa dica, gli odi della guerra civile in modo retorico e controproducente. A nostro avviso il discorso del professor Marcello Pera dovrebbe essere conosciuto e meditato, ma, soprattutto e da entrambi gli schieramenti, digerito.