E' una provocazione? Certo, dirompente per chi sa attribuire il giusto significato alle immagini e a ciò che esse sono capaci di rievocare, ma non crediamo che qualcuno possa rimproverarsi e rimproverarci per questo pungolo. Ce ne fossero di questi tempi.
Una volta, in fondo, anche agli ebrei, prelevati e caricati come bestie sui vagoni ferroviari destinati ai campi di concentramento sparsi per tutta l'Europa, veniva detto che sarebbe stata soltanto una breve vacanza, che sarebbero, al massimo, andati in un campo di lavoro o di internamento periodico. Tutti sanno, poi, come andò a finire. E, perdonateci, ma anche all'epoca qualche madre premurosa al figlio o alla figlia impaurita, avrà detto 'Andrà tutto bene'. Invece non andò tutto bene. Per niente. Andò, al contrario, tutto male ed è anche per questo che non ci fidiamo di chi, in anticipo, mette le mani avanti per tranquillizzarci, perché in questi 50 giorni di lockdown o arresti domiciliari, sia pure in casa propria, di bene non è andato proprio niente. Tutt'altro. Le persone sono andate fuori di testa, qualcuno si è tolto la vita, altre sono ricorse a farmaci o sedute psicoanalitiche via skype, altri ancora non dormono la notte pensando a cosa li attende e, soprattutto, tutti si chiedono per quale motivo viene loro impedita l'unica vera libertà fondamentale e intoccabile dalle origini dell'essere umano ai giorni nostri, quella di procacciarsi il necessario per vivere.
Perfino i nazisti, nella loro lucida follia, ebbero l'idea di porre, all'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz e non soltanto, la scritta Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Qui da noi, dove il nazismo, per fortuna, è scomparso da un pezzo, evidentemente non esiste più la libertà proprio perché è stata impedita la libertà di lavorare. Non esistono i campi di sterminio né le camere a gas o i forni crematori, ma la miseria alla quale stanno condannando milioni di esseri umani se non è l'anticamera della deportazione, poco ci manca.
Tutto andrà bene ce lo hanno messo in bocca e in testa all'inizio di quella che, per tutti, bambini e studenti in genere, doveva essere e sembrava una vacanza e niente più. Al massimo, una piacevole parentesi scolastica. Canzoni e musica sui balconi, bandiere tricolori, trasmissioni televisive h24 nelle quali i soliti servi sciocchi del potere a una dimensione interrogavano massaie intente a preparare succosi manicaretti. Doveva durare, questo periodo di quarantena, appena due settimane che, poi, tutto sarebbe scomparso e sarebbe ritornato il sole. Non è andata così. Il sole è arrivato, ma nessuno ha potuto riscaldarsi ai suoi raggi.
Tutti a casa hanno detto. Sono passati 50 giorni e non è cambiato niente. L'ultima volta che qualcuno ha gridato tutti a casa, è stato all'indomani dell'8 settembre 1943, quando una classe dirigente, militare e politica che aveva fornicato col fascismo per venti anni, pensò che bastasse una firma per cancellarli e ricominciare daccapo come se niente fosse accaduto. Peccato che in mezzo c'erano stati milioni di morti, la migliore generazione italiana che era andata in fumo sui campi di battaglia di mezza Europa e d'Africa. Anche allora chi avrebbe dovuto assumersi le responsabilità di quella scelta, la firma dell'armistizio, si diede alla fuga per paura e vigliaccheria abbandonando il popolo italiano e i suoi soldati alla vendetta dei tedeschi traditi.
Sono passati quasi 80 anni, ma ancora adesso la nostra classe dirigente, politica e amministrativa, è abituata a pensare prima al proprio tornaconto e, poi, a chi dovrebbe, al contrario, tutelare. 50 giorni di chiusura totale, come animali in gabbia e, se usciti, inseguiti e perseguitati con tanto di nuove tecnologie al seguito. Si sono trasformati le forze dell'ordine, da sempre indispensabili per combattere il crimine, in protagonisti di una sorta di guardie e ladri tragicomica se non ci fosse da piangere. Dalla disperazione.
Hanno parlato di miliardi come se fossero fiocchi di neve, ma gli italiani si sono domandati come mai, altrove, il denaro promesso è arrivato in un batter d'occhio sui conti correnti mentre, qui da noi, nemmeno a parlarne e, per di più, niente fondo perduto, ma ulteriori indebitamenti per tutti.
Anche ad Auschwitz, ricordava Primo Levi, dicevano di lavarsi spesso le mani e la professoressa Marina Mascetti ne ha giustamente rilevato l'inquietante similitudine:
Se lo sentiva dire anche Primo Levi nel campo di concentramento di Auschwitz con una filastrocca che era un’atroce presa in giro, viste le condizioni igienico sanitarie: «Dopo il bagno, prima di mangiare, lavati le mani, non dimenticare!». Quella stessa identica filastrocca in tedesco «Nach dem Abort vor dem Essen, Hände waschen, nicht vergessen!» è ricomparsa sul web come prima raccomandazione per l’epidemia, senza nessuna vergogna. Forse perché i sopravvissuti dei lager sono quasi tutti morti, e pensano che non se la ricordi più nessuno. Non bastava dire “lavati le mani”?
Dicono che è colpa del virus, anzi, del Coronavirus che, adesso, tutti, però, chiamano Covid-19, suona meglio ed è meno populista. Un virus, cioè, che ha ucciso, dati alla mano, solo e soltanto a determinate condizioni salvo eccezioni, ma che ha lasciato indenni, generalmente, i più deboli, ossia i bambini, non toccando se non di sfuggita i giovani, le donne e gli uomini fino ai cinquant'anni e anche più. Un virus part-time che, però, ha messo in ginocchio un paese che già faceva fatica a tenersi in piedi.
La vita, si è soliti dire, non ha prezzo, ma arriva un momento in cui questo prezzo è necessario domandarsi se siamo tutti d'accordo nel non volerlo pagare. Perché dal Covid-19 si può anche guarire, dalla miseria, tuttavia, assolutamente no ed essa è, a detta di tutti, peggiore della morte stessa.
Hanno trattato regioni diverse allo stesso modo, la Basilicata e il Molise come la Lombardia. E adesso che anche le altre regioni stanno dimostrando di non avere più rischio elevato di contagio, annunciano nuovi scenari apocalittici, seconde e terze ondate nemmeno si trattasse di bombardamenti, predicano ancora la paura e l'angoscia. La gente obbedisce perché non pensa, non pensa perché non ha gli strumenti culturali per farlo e si comporta come una massa amorfa che si muove alla stessa stregua di un gregge.
Siamo nelle mani dei virologi, degli infettivologi, degli scienziati, degli esperti ai quali la politica ha abdicato rinunciando alla propria vocazione, alle proprie responsabilità. Ancora una volta.
Come possono studiosi abituati a guardare la vita da dentro i laboratori e attraverso le lenti d'ingrandimento dei loro microscopi, riuscire a capire il dramma che vive l'uomo comune, quello che ogni mattina si alza e sa che se vuole vivere deve, per forza di cose, lavorare?
Sono passati 50 giorni e i morti con il Coronavirus sono sempre tanti. Troppi. Eppure, secondo i dati ufficiali, nello stesso periodo del 2019 il numero complessivo dei decessi era, addirittura, superiore. Come mai? E come mai in Germania e non solo, con altrettanti casi di contagio, siamo già alla ripartenza? Già, sembra quasi che i popoli latini siano quelli più paurosi e terrorizzati dall'idea di convivere col virus nell'attesa messianica e folle oltreché impossibile, di un azzeramento totale dei contagi.
Questa non è una pandemia, questa è la distruzione sistematica di una economia e di una cultura, quelle italiane, che condurrà alla disperazione milioni di persone per le quali non soltanto non andrà tutto bene, ma, al contrario, andrà tutto male. E se anche non siamo ebrei, anche se non abbiamo la stella gialla di David cucita sui vestiti, anche se Auschwitz è, fortunatamente, soltanto un lontano e brutto ricordo, siamo convinti che ci stanno conducendo, con leggerezza scientifica, verso una condizione che niente avrà più di umano, ma molto, moltissimo di schiavo.