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Scritto da andrea cosimini
Barga
15 Marzo 2024

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Primo Levi, il Testimone (rigorosamente con la ‘t’ maiuscola) per eccellenza, scriveva nel suo ultimo capolavoro - I sommersi e i salvati - in riferimento all’universo concentrazionario dei lager nazisti: “La ragione, l’arte e la poesia non aiutano a decifrare il luogo dal quale esse sono state bandite”. Ecco, il fittizio protagonista del controverso film “Il testimone” (con la ‘t’ rigorosamente minuscola) sul conflitto – non fittizio, purtroppo - in Ucraina ricorda molto da vicino l’Intellettuale ad Auschwitz di cui scrive Levi in un memorabile capitolo del suo libro-testamento.

Daniel Cohen (personaggio di fantasia nella pellicola), rinomato violinista internazionale, richiama vagamente la figura di Jean Améry (al secolo Hans Chaim Mayer), lo scrittore e filosofo austriaco che venne arrestato e torturato dalle SS e dalla Gestapo per poi essere deportato nei campi di concentramento nazisti e, lì, sopravvivere. Mayer è stato – con Levi – uno dei Testimoni (‘t’ maiuscola) più attendibili e stimolanti degli orrori commessi dal nazionalsocialismo tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. Perché più ‘attendibili’ e ‘stimolanti’? Proprio perché filosofo e scrittore. Quindi non semplice ‘cronista’ delle orribili vicende, ma fine interprete delle atrocità per mezzo della sua sensibilità umana e letteraria.

Il regista georgiano David Dadunashvili, nel tentativo di raccontare l’altra-verità (ma quante verità esistono, se non una?) dell’invasione russa in Ucraina, ha scelto, a sua volta, un artista – non uno scrittore e filosofo in questo caso, ma un musicista – per fare da ‘testimone’ (minuscolo) di quanto realmente (?) accaduto nella regione del Donbass. Un punto di vista, senza dubbio, interessante sotto il profilo formale; ma la forma, nel caso di film come questi, non può prescindere dalla sostanza. Quindi dai contenuti.

E allora: premesso che il film – proiettato ieri sera (peraltro con discreto successo) al Cinema Roma di Barga in una serata-evento organizzata dal comitato lucchese “Fronte del dissenso” - è stato additato dalla critica come ‘filo-russo’ se non, addirittura, ‘propagandista’ del governo presieduto da Vladimir Putin (il regista, a quanto si legge, ha goduto del sostegno del ministero della cultura russa per la realizzazione del film – il ché è già un indizio); può essere attendibile la narrazione di fondo?

Impossibile esprimersi su questo se non con toni da tifoseria. L’occidente – non tutto, ovvio, ma in larga parte – ha deciso di credere alla versione del presidente ucraino Volodymyr Zelens'kyj. Il film, al contrario, sembra propagandare una visione alternativa, opposta si direbbe, in cui i russi di Putin appaiono magicamente non più come i ‘nemici’ dell’Ucraina ma come i ‘liberatori’ (e quindi, in sostanza, gli ‘amici’) dello stesso popolo ucraino dal giogo dei militari nazionalisti del Battaglione Azov.

Il collegamento in sala, prima della proiezione del film (oltre 2 ore), del giornalista italiano Vincenzo Lorusso dal Donbass non ha aiutato a farsi un’idea precisa sugli eventi. Si è combattuti tra due giudizi: uno di forma e uno di contenuto. Se, a livello di forma, il film ha notevoli pregi, a livello contenutistico non fa che alimentare confusione sulla narrazione del conflitto (o invasione?) in Ucraina.

A chi deve credere il povero cittadino? Chi sono i buoni e i cattivi? Ha proprio ragione Primo Levi: l’arte, anche in questo caso, non aiuta a capire. Si è come inermi davanti alla sconfitta dell’uomo.

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